IL FILM DEL GIORNO

Testament (1983) di Lynne Littman

IL FILM DEL GIORNO

PROFESSIONE REPORTER (1975) DI MICHELANGELO ANTONIONI

POVERE CREATURE (2023) di yorgos lanthimos – UN PERCORSO RI-GENERATIVO




Tratto dal romanzo dello scrittore scozzese Alasdair Gray l’ultimo lavoro di Yorgos Lanthimos si è imposto nel panorama del cinema internazionale come un’opera dal grande potere visionario frutto di un percorso di crescita che vede il regista greco imporsi come uno degli autori più significativi degli ultimi anni.

Povere creature elabora la forza espressiva delle immagini e indaga il legame tra coscienza umana e la relativa natura organica attraverso la storia di Bella Baxter e del suo percorso di formazione dopo un intervento chirurgico che oggi non è più fantascienza: a Victoria Blessington – trovata morente in seguito ad un tentato suicidio – viene trapiantato il cervello del figlio che portava in grembo.

Negli ultimi anni il controllo del sistema neurologico è diventata l’ultima frontiera della ricerca scientifica sia a livello medico, per il primo caso di trapianto totale eseguito su un cadavere dall’ekip del Prof. Canavero presso l’università medica di Harbin, ma anche attraverso il progetto Neuralink di Elon Musk allo scopo di curare le più note malattie neurologiche… uno dei pochi scopi a noi conosciuti.

Inserendo l’opera di Lanthimos in questo contesto ci accorgiamo di come Povere creature ci parli della contemporaneità, un’epoca in cui il controllo sulla vita biologica delle persone è tornato ad essere una priorità del potere… non è un caso che il co-protagonista si chiami Godwin God Baxter che riesce a rigenerare la vita dal punto di vista biologico attraverso un’azione che porterà il personaggio di Bella alla totale perdita della sua precendente identità riuscendo anche a indagare la natura del mito.

Tuttavia la capacità di ri-generare la vita si ritorce contro il suo stesso creatore in quanto, proprio come nel Frankestein di Mary Shelley, la creatura sente la necessità di abbandonare il proprio creatore in quanto God non manifesta una volontà chiara e credibile al punto da ritenere empiricamente corretto l’esser stato una cavia da laboratorio di suo padre durante l’infanzia.

Gli dei che animano il mito sono portatori di una forte personalità e il loro mondo, separato da quello umano, ne è molto somigliante.

Il percorso che separa la nascita dalla piena affermazione dell’individuo avviene attraverso l’incontro con la natura mutevole del mondo ed è qui che divino ed umano si incontrano.

 

Se il divino in God si infrange contro l’assenza di apertura all’impermanenza del mondo, Bella trova nel sesso la chiave per scoprire l’energia vitale alla base della stessa creazione e l’affermazione di sé come ente politico radicato nella realtà del momento in cui scopre la sofferenza umana diventando socialista, con connotazioni profonde a tal punto da ricordare l’incontro con le quattro sofferenze della letteratura buddista.

La natura politica del personaggio di Bella fin qui descritta si radicalizza nel momento in cui viene a conoscenza della sua storia precedente fatta di estremi maltrattamenti a cui oppone il principio della piena autodeterminazione dell’individuo. Lanthimos prende le distanze dalla forma epistolare del romanzo di Alansdair Gray che focalizza l’attenzione sul presente e anche quando il passato riappare non riesce a lasciare segni significativi.

Se Povere creature si apre a una lettura politica, la scelta ricorrente del grandangolo appare particolarmente efficace in quanto mostra il rapporto che viene a crearsi tra il personaggio, lo spazio di riferimento e la sua capacità di evolversi al suo interno come già ci mostrò Stanley Kubrick (specie in Shining in cui emerge il rapporto tra Jack Torrance e l’Overlook Hotel oppure in 2001:Odissea nello spazio in cui diveniva l’occhio di HAL 9000). L’intera atmosfera del film inoltre mantiene un tono fiabesco tipico del cinema di Tim Burton rendendolo accessibile al grande pubblico nonostante la complessità dei temi trattati 


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Claudio Suriani Filmmaker




C’E’ ANCORA DOMANI (2023) DI PAOLA CORTELLESI: SI IMPONE UNA RIFLESSIONE

 

Partiamo da una considerazione generale: ogni opera che dia adito a una discussione e a un confronto aperto arreca un contributo di valore alla comunità nell’epoca dell’essere umano digitale, veloce, poco riflessiva (non solo al cinema) che reclama un incremento di crescita personale propria dei vecchi cineforum. Detto questo, corre l’obbligo di precisare che da sempre il lavoro di Cinepeep è orientato a proporre mezzi critici per analizzare un lavoro cinematografico a diversi livelli che possano generare giudizi di merito che, il più delle volte, viene confuso con il giudizio di gusto. Un’attenta analisi dell’opera in sé a stretto contatto con la contemporaneità ci consente di prendere le distanze dalla logica dell’intrattenimento ribadendo che l’esperienza dello spettatore cinematografico (non il cinema in sé) è dettata dal tempo presente … dal qui e ora.

 

Chiariti tali presupposti C’è ancora domani, opera prima di Paola Cortellesi, dimostra il potenziale (parola densa di significato) registico dell’artista romana. Al termine della visione ciò che appare evidente è non solo il desiderio di portare a compimento la propria idea di cinema (nel grigiume del cinema italiano contemporaneo – quanto meno delle opere di successo – è senz’altro positivo) ma anche omaggiare la grande stagione del cinema neorealista (consapevole?) anche attraverso l’utilizzo di immagini di repertorio dell’Istituto Luce. 


Nonostante sia un’opera che dimostri un grande trasporto umano verso la condizione della donna nel nostro paese (mai cambiata in modo sostanziale) la nota di merito essenziale che desidero sottolineare non è tanto questa ma la ricerca personale che allontana l’ombra del marito Riccardo Milani dal ruolo simile a quello che Sergio Leone ebbe col Carlo Verdone degli esordi.

Ma esistono anche elementi di criticità.

Non posso affermare con certezza se sia da imputare alla Cortellesi o a imposizioni produttive tipiche del cinema italiano che ormai da anni, eccetto pochi casi (come la regista Alina Marazzi restando in ambito femminile) lavora contro la libertà stilistica (al contrario, del cinema orientale) quindi li metterò in evidenza sospendendo il giudizio.

Il primo aspetto è la colonna sonora: le musiche di Daniele Marchitelli (in arte Lele) sono in aperto contrasto con l’universo raccontato: un mondo fatto di violenza, di umiliazioni quotidiane ma anche di sofferenza e traumi inelaborati personali e collettivi… ricordiamo che siamo nell’immediato dopo guerra. La storia del cinema è carica di compositori che riuscivano a esprimere a pieno l’immaginario visivo dei registi per cui lavoravano (si pensi a Nino Rota per Federico Fellini o Angelo Badalamenti per David Lynch). Se l’intento di tale scelta era creare una sorta di shock nello spettatore non si è rivelata efficace in quanto nonostante la violenza subita da Delia sia quotidiana (al punto che anche il padre di Ivano sembra ribellarsi) Paola Cortellesi fa una scelta di campo chiara: mostrarla il meno possibile (in molte sequenze infatti è immaginata e non mostrata). Se l’inferno della protagonista emerge da una quotidianità divenuta ormai insopportabile ciò non consente alle musiche spensierate di Lele Marchitelli di creare quello shock estetico che (forse) la Cortellesi cercava (per comprendere meglio il concetto si pensi ad un film come Eraserhead: la mente che cancella – David Lynch, 1977 - e alla sua musica finale).

 

Questo è vale anche per le due sequenze di danza nel pieno della volgare violenza di Ivano.

Se un film come La vita é bella (Roberto Benigni, 1997) fu definito da Liliana Segre non realistico, nei confronti di C’è ancora domani vale lo stesso criterio: queste due sequenze rendono giustizia alle vittime di oggi? Inoltre, nel decidere di affrontare un tema drammaticamente attuale come la violenza sulle donne attraverso l’immaginario del neorealismo (scelta in partenza efficace) perché distaccarsi dai dettami estetici di una vera e propria scuola che così tanto ha dato al cinema italiano (e non solo) rappresentando a pieno la realtà per ciò che era?

Per concludere credo che le strade siano due: se da una parte un film come C’è ancora domani ci comunica che ogni scuola cinematografica è figlia del proprio tempo e cercare di replicarla a distanza di sessant’anni (neanche in modo del tutto fedele) possa risultare  un’operazione di maniera, dall’altra,  e torno al punto di partenza, una simile opera prima trasmette il desiderio (anche questo un termine saturo di significato) da parte di una giovane artista di mostrare al mondo le sue capacità (aspirazione del tutto legittima) cercando anche la propria identità registica … aspetto centrale per imporsi come autrice e non come regista mestierante.


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Claudio Suriani Filmmaker

 


KILLER OF THE FLOWER MOON - ANCORA NULLA DI NUOVO

I grandi nomi del cinema mondiale sono portatori di grandi aspettative in quanto autori imprescindibili nella riflessione sul cinema. Possiamo fare un esempio paradigmatico. Nel caso di un autore come Martin Scorsese possiamo dar per scontata la sua maestria nella messa in scena e proporre una lettura di ampio respiro: un’opera come Killers of the Flower Moon (Martin Scorsese, 2023) diventa così il fine e non il mezzo di un’ampia riflessione perdendo sicuramente qualcosa di prezioso per la contemporaneità.

Andiamo per gradi: è stato messo in rilievo il legame di Killers of the Flower con le sue due opere precedenti, Silence (2016) e The Irishman (2019) al fine di rappresentare la violenza come una sorta di linguaggio universale facente parte della stessa natura umana assieme alla gestione del tempo e dello spazio attraverso un’ampia coralità di voci.

Nonostante il paragone sia del tutto legittimo, Killers of the Flower Moon con la sua enorme portata storica rischia di diventare autoreferenziale. Assodato che la struttura formale del cinema di Scorsese, a partire dalla scrittura, raramente presenta criticità ritengo che la domanda più interessante da porsi sia: attraverso la storia di Ernest e Lily cosa ci sta raccontando? Qual è il fuori campo? E, ampliando la portata del discorso, il cinema è un’arte narrativa o un’arte visiva? Cosa lo distingue dal racconto letterario?

Possiamo considerare valida l’obiezione per cui il cinema non sempre deve farsi portatore di principi morali o divenire uno strumento di lotta o utile a guidare le masse? Sembrerebbe vero per il cinema di Scorsese che sembra rispondere alla richiesta di intrattenimento se pur di qualità.

Questo è un concetto che spesso ritorna nel lavoro di Cinepeep: l’intrattenimento è figlio della società capitalistica, manca di quelle scelte formali capaci di suscitare una riflessione profonda … nel nostro caso la nascita degli Stati Uniti e la storia dei nativi americani. Inoltre uno dei mezzi più sottili, ma allo stesso tempo più efficaci per l’affermazione del potere storico e/o economico è proprio la capacità di “autocontestarsi” all’interno dei propri confini sia estetici che produttivi.

 

La critica a un sistema politico mossa da personaggi interni allo stesso diventa la forma più efficace della sua affermazione.

 

Killers of the Flower Moon è un esempio perfetto di come anche un intrattenimento di altissima qualità miri a nascondere le problematicità di un sistema che a causa dello sviluppo delle tecnologie informatiche sta radicalmente cambiando dall’interno (si pensi allo sciopero degli scrittori contro la scelta di affidarsi all’intelligenza artificiale o il proliferare di piattaforme digitali facendo perdere la centralità alla sala). Nonostante possa sembrare un aspetto del tutto secondario credo che sia di assoluta attualità in quanto ci mostra come il cinema storico, in un momento di grande rivoluzione estetico/tecnologia, non possa esimersi dall’inglobare nella sua proposta il fulcro centrale della nostra più stretta contemporaneità: la fusione tra eventi storici e un mezzo di comunicazione ormai cambiato dalle fondamenta al punto da essere considerato da alcuni obsoleto!!

Killers of the Flower Moon è uno splendido racconto su una fase decisiva della storia degli Stati Uniti carica della sapienza tecnica di un maestro come Martin Scorsese. Dal punto di vista di Cinepeep ciò che cerchiamo nel cinema e nell’audiovisivo in generale, è superare la logica anestetizzante dell’intrattenimento (se pur di qualità) per una riflessione sul ruolo delle immagini divenute ormai un’esperienza quotidiana molto diversa dall’epoca pre-rete.


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Claudio Suriani Filmmaker


KUSO: ESPERIMENTI DI CINEMA DADAISTA  (UN FILM DI FLYING LOTUS)

LA MUSICA DI CINEPEEP

DEMONS  "DEMONOLOGY


IL FILM DEL GIORNO

FEMALE TROUBLE: IN RICORDO DI DIVINE !!! (Un film di John Waters)


LA MUSICA DI CINEPEEP


THE OLD FIRM CASUALS - ignorant ones


SOGNI - Raggi di sole nella pioggia (Un film di Akira Kurosawa)


X-FILES: televisione e biopotere


C’è ancora qualcosa da dire su una serie come X-Files, un’esperienza seriale a cui si sono ispirate tutte le indagini sulle angosce della contemporaneità? In questo articolo perlustreremo una delle tematiche più importanti dell’opera di Chris Carter: il legame tra la sfera biologica e il potere.

Se la struttura di X-Files risente di un evidente debito nei confronti di Twin Peaks (specialmente nelle prime due stagioni oltre che per la caratterizzazione del personaggio di Mulder del tutto simile a quella di Dale Cooper) per stessa ammissione di Carter dobbiamo dire che anche opere seriali come Kolchak: The Night Stalker (Universal Television 1974 – 1975) e soprattutto Ai confini della realtà (Rod Serling , 1959 – 1964) ebbero una forte influenza sul suo immaginario, riuscendo anche a evitare l’effetto nostalgia per una fantascienza ormai datata esaminando le paure legate ai meccanismi oscuri della politica (gli Stati Uniti nei primi anni novanta erano ancora alle prese con le conseguenze dello scandalo Watergate e della guerra in Vietnam) e a quel fenomeno che chiameremo ibridazione bio-tecnologica.



Biopotere e ibridazione bio-tecnologica




Computer, telefoni, televisori ma soprattutto manipolazione biologica: X-Files portò al grande pubblico il bios come strumento del potere rendendolo lo scopo primario delle dinamiche politiche attraverso fiale di DNA conservato in archivi federali o malattie indotte come il cancro di Scully e la diffusione del vaiolo, due esempi dell’incrocio tra bios e potere.

Per Michel Foucault la Biopolitica è l’ambito del biopotere che ha lo scopo di gestire la vita del singolo e di intere popolazioni e in X-Files tale presupposto appare prepotentemente: episodi come Eve (1x11) o Paper Clip (3x02) sono una dichiarazione di intenti: porre al centro della riflessione non solo l’entrata della vita biologica nella tecnica ma anche l’intervento del potere politico (e spesso economico) nelle dinamiche biologiche dell’essere umano. Inoltre nell’episodio Paper Clip le macerie della storia emergono in tutta la loro forza. Paper Clip fu l’operazione con cui gli Stati Uniti d’America salvarono alcuni scienziati nazisti dal processo di Norimberga in cambio delle loro conoscenze scientifiche (uno dei più noti fu Wernher von Braun, il progettista delle bombe V2 che devastarono Londra). La storia ri-emerge creando un presente inafferrabile e definendo la natura stessa della ricerca della verità di Mulder: effimera ma efficace al tempo stesso.

Ma se i legami tra X-Files e la riflessione biopolitica appaiono evidenti è centrale indagare il ruolo in questo processo dell’ibridazione bio-tecnologica nell’epoca della rete e i suoi effetti nella messa in scena televisiva.

Da un punto di vista puramente formale X-Files è divisa in due parti: nelle prime quattro stagioni l’immagine ci appare come un 4:3 tipico della televisione a tubo catodico mentre dalle successive stagioni entra in campo il 16:9: televisione e cinema iniziano a dialogare.


Il ruolo della rete nei meccanismi bio-tecnologici


Un elemento che abbiamo incontrato nei precedenti articoli sulla serialità è il fenomeno denominato Binge Watching: la visione prolungata in numerosi episodi di un’opera seriale. E’ un fenomeno capace di diventare una vera e propria dipendenza arrivando a compromettere la salute psico-fisica nonchè la vita sociale ed economica di una persona. Nonostante sia un fenomeno aggravatosi durante la pandemia da Covid 19 affonda le sue radici nello sviluppo della banda larga e nella possibilità di avere a disposizione l’intero corpus degli episodi perdendo così il valore di evento della messa in onda delle singole puntate.

 

La rete entra nella nostra sfera dell’immaginazione e agisce sulla nostra sfera critica:  nasce l’urgenza di un’analisi accurata del fenomeno.

 

In X-Files non solo la tecnologia informatica ha un ruolo centrale all’interno del racconto. Se pensiamo ai tre pistoleri solitari, al ruolo della cultura hacker e all’utilizzo della rete all’interno dell’corpus degli episodi come ad esempio Kill Switch (5x11) assistiamo alla descrizione proprio di quel processo di Ibridazione tecnologica e del suo legame con la sfera biologica come il congegno elettronico (un cip da computer) impiantato nelle donne rapite che causerà il cancro di Scully.

 

Questo è un passaggio determinante: se da un punto di vista puramente narrativo la rimozione di tale congegno provoca il cancro allo scopo di preservare i misteri legati alla cospirazione, da un punto di vista più ampio ci mostra come un processo come l’ibridazione bio-tecnologia sia ormai irreversibile: basti pensare a un esperimento come l’interfaccia Brain computer, progetto dell’azienda Neuralink (di proprietà di Elon Musk) presentato in anteprima alla California Academy of Science che consentirebbe l’impianto di dispositivi nel cervello umano allo scopo di creare con strumenti Hi-tech il potenziamento del pensiero umano … risuona persino l’eco del progetto dei Super soldati di cui si parla nelle stagioni otto e nove.

Se X-Files, attraverso il linguaggio televisivo, è divenuta una pietra miliare di tutte quelle opere che immaginarono e perlustrarono le ombre del futuro come Bladerunner nel cinema (Ridley Scott, 1982) o 1984 in letteratura (George Orwell, 1949) è altrettanto vero che se il processo di ibridazione bio-tecnologica fin qui descritto è divenuto parte della nostra quotidianità divenendo per questo poco visibile sottraendosi per questo al pensiero critico, opere come queste diventano essenziali per poter continuare a farlo.


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Claudio Suriani Filmmaker

X-FILES: TELEVISIONE E BIOPOTERE

Articolo in uscita domani anche su https://cinepeepbarbarienelcinema.blogspot.com/


OPPENHEIMER (2023) DI CHRISTOPHER NOLAN - Minaccia nucleare ed intrattenimento

Con il mese di settembre inizia una nuova stagione di Cinepeep e data l’incombenza dei maggiori festival del cinema europei (Venezia, Cannes e Berlino) e l’uscita di pellicole divenute veri e propri fenomeni mediatici ci apprestiamo ad indagare la natura delle opere che più stanno facendo discutere in questo periodo.

Il primo film in questione è Oppenheimer (Christopher Nolan, 2023).

Partiamo da considerazioni di ordine generale: in primis Christopher Nolan ad oggi è uno dei brand più influenti del cinema americano contemporaneo, capace di indirizzare lo sguardo dello spettatore cinematografico medio e riportarlo al cinema rafforzando il legame tra l’opera e la sala, luogo naturale per la sua fruizione.

Se consideriamo ciò un elemento di indiscusso valore (in quanto oggi il cinema rischia di subire una trasformazione epocale passando da un’esperienza comunitaria a pura esperienza di solitudine a causa del proliferare delle piattaforme streaming) un film come Oppenheimer si inserisce in un contesto storico in cui non solo la tematica del nucleare è diventata di grande attualità  a livello civile (l’incidente di Fukushima e le relative conseguenze) e militare (la guerra in Ucraina e la relativa minaccia nucleare) e si propone come un’opera carica di ridondante classicismo creando una frattura tra forma e sostanza.

Nel corso del lavoro di Cinepeep abbiamo indagato più volte il legame tra l’opera e il tempo, tra produzione e fruizione:  Oppenheimer appare come una sorta di capitolo finale di un percorso rivolto a scandagliare i misteri della fisica di Interstellar (2014) e Tenet (2020) in relazi racconto bellico di Dunkirk (2017) punto di congiunzione tra due mondi apparentemente distanti ma che, nel corso del XX secolo, hanno trovato una tragica comunione di intenti.

Il cinema di Christopher Nolan è privo di elementi innovativi proprio in virtù del suo essere profondamente hollywoodiano e, di conseguenza, incapace di innovare il linguaggio filmico fornendo a uno spettatore navigato il gusto amaro del già visto.

Data la rilevanza storica del tema trattato è necessario interrogarsi se attraverso le vicende di J. Robert Oppenheimer, Nolan abbia voluto prendere posizione sull’uso dell’energia nucleare e in caso affermativo se ci sia riuscito.

Io penso che il suo intento fosse questo…ma che non ci sia riuscito.

Il cinema ha affrontato il tema delle armi atomiche da diversi punti di vista: dal romanticismo di Hiroshima Mon Amour (Alain Resnais, 1959) alla forza grottesca de Il dottor Stranamore (Stanley Kubrick, 1964) fino a A prova di errore (Sidney Lumet, 1964 considerato a torto uno dei suoi film minori). La classicità dell’opera di Nolan non ha la forza di creare un filo conduttore con le opere citate in quanto l’assenza di una marca autoriale riconoscibile non fa emergere la posizione di Nolan rispetto agli eventi narrati e neppure sui rischi nucleari contemporanei facendo emergere dal film la totale assenza di sottotesti efficaci.

Se il cinema di Christopher Nolan può rientrare a pieno titolo nella categoria dell’intrattenimento (settore in cui ha dimostrato il meglio delle sue capacità registiche) è doveroso interrogarsi sul valore etico dell’opera in questione … specialmente su una tematica così drammaticamente attuale come la minaccia nucleare come arma di offesa.

Inoltre in Oppenheimer si articola una sorta di relativismo culturale attraverso la descrizione del nostro protagonista combattuto tra un acritico senso di responsabilità e la percezione dell’orrore che andava costruendo.

Se Hollywood rappresenta uno dei maggiori imperi economici dell’America, un film come Oppenheimer non ha la forza di opporsi alla sua politica atomica, una delle maggiori forme di potere, e fallisce il tentativo di elaborazione del trauma storico di Hiroshima e Nagasaki.

Il cinema di Christopher Nolan rappresenta il filo conduttore che lega potere economico e industria dell’intrattenimento e nel momento in cui si affrontano tematiche con forti implicazioni storico/filosofiche ed etiche si esce inevitabilmente da quell’ambito di cui è resta esemplare la trilogia su Batman (Batman Begins del 2005, Il cavaliere oscuro del 2012 e Il cavaliere oscuro; Il ritorno del 2012) che, decisamente, ci sembra più nelle sue corde.


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Claudio Suriani Filmmaker


INDIANA JONES E IL QUADRANTE DEL DESTINO (2023) DI JAMES MANGOLD - In che direzione sta andando il cinema hollywoodiano?

L’ultimo capitolo della saga di Indiana Jones ci pone di fronte diversi interrogativi. In primo luogo perché si continui a portare avanti le vicende di un personaggio che ha caratterizzato il cinema d’intrattenimento degli anni ottanta ma che oggi risulta estraneo alle dinamiche del cinema contemporaneo. Da sempre le opere seriali (cinematografiche e televisive) soffrono l’eccessivo protrarsi di saghe nel momento in cui superano una canonica trilogia, nel caso del cinema, o un determinato numero di episodi nel caso della televisione; nel cinema hollywoodiano (di cui Steven Spielberg è il massimo rappresentante contemporaneo) appare evidente che l’obiettivo di investire su un brand di sicuro richiamo tenda a mettere in subordine il tema cardine del nostro discorso: un personaggio come Indiana Jones, oggi, ha ancora la forza di creare nuovi mondi? Se uno dei pregi della trilogia originaria si trova nella scrittura e conferisce ai film la forza narrativa delle grandi opere d’avventura (come Le avventure di Tom Sawyer di Mark Twain o l’intera bibliografia di Jules Verne) qui James Mangold si affida a una regia che mette in scena sequenze d’azione con inseguimenti in puro stile Fast & Furious e che nei momenti cruciali rischia di cadere in scelte formali sensazionalistiche facendo perdere di forza alla sua struttura narrativa, il découpage classico cede il posto a un montaggio frenetico tradendo la stessa idea di cinema dell’autore della saga. E’ difficile credere che Steven Spielberg si sia lasciato sfuggire il controllo su uno dei suoi personaggi più rappresentativi…E’ evidente che questa perdita di cura nella scrittura danneggi allo stesso tempo il potere visionario del cinema nonché il personaggio di Indiana Jones.

Il cinema crea immagini-simbolo: se l’Indiana Jones anni ottanta era l’emblema di un cinema d’intrattenimento capace di creare mondi attraverso uno stile di messa in scena narrativo tipicamente hollywoodiano, Indiana Jones e il quadrante del destino soffre di una mancanza di chiarezza di intenti. Se nell’incipit de Il trionfo della volontà (Leni Riefenstahl, 1935) Leni Riefenstahl non narra il viaggio in aereo di Hitler ma la superiorità del Führer sul proprio popolo, i primi tre capitoli della saga ci riportano al cinema di Frank Capra per la vittoria del modello culturale americano, al grande Western di John Ford per la rappresentazione del Gran Canyon e della Monument Valley (in Indiana Jones e l’ultima crociata (1989)). Indiana Jones e il quadrante del destino è privo di sottotesti credibili in quanto la lotta ai nazisti non solo ha il sapore amaro del già visto ma appare come una scelta scontata verso la quale gli spettatori possono facilmente immedesimarsi. Inoltre il nazismo in quest’ultimo capitolo è rappresentato attraverso un falso storico che necessita di essere chiarito: il personaggio di Jürgen Voller, che desidera tornare indietro nel tempo per uccidere Hitler e invertire il corso della seconda guerra mondiale, si pone contro uno dei fondamenti su cui si basava l’intero nazionalsocialismo. Il Führer incarnava la prassi politica del Terzo Reich: ciò significava non solo che la parola di Hitler diventava direttamente legge dello stato ma l’intera struttura di potere (legislativo e militare) erano incarnate nella persona di Hitler e ogni nazista era pienamente cosciente di ciò.

Quindi arriviamo alla domanda iniziale: in che modo il cinema può tornare a creare nuovi mondi? In che modo lo spettatore può rivivere il dolce smarrimento del cinema delle origini? La forza identitaria del western di John Ford o il terrore viscerale delle origini dell’horror? Nonostante sia un tema complesso che merita una riflessione apposita è necessario partire dall’augurio che in ogni caso possa tornare a investire sulla creazione di nuove storie ridando anche centralità alla sala come esperienza cinematografica nella sua interezza 

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Claudio Suriani Filmmaker



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